Se un’influenza di letture dell’altro
secolo è palpabile, questa non può essere vista come un elemento negativo o
frenante. L’autore maneggia il materiale poetico con una naturalezza e con una
profondità necessarie a fare dell’ottima poesia, interessante, moderna
intelligente[1].
Leggendo
questi pochi versi facenti parte della prefazione alla raccolta Limite del Vero, curata da Giulio
Maffii, si può subito costatare come siano, fin da principio, accostate due frasi
pienamente in antitesi tra loro: un’influenza
di letture dell’altro secolo che, prendendo come spunto l’invocazione alla
musa all’apertura della silloge di François Nedel Atèrre ci riconduce,
probabilmente, ad un interesse e ad una lettura approfondita che, lo stesso
autore, deve aver compiuto verso le opere classiche e il fatto che, la poesia
dell’Atèrre sia di fatto moderna.
Dunque, fin da principio, viene messa in risalto (a ragione) la grande abilità
del poeta in questione, ossia la capacità di sapersi districare tra elementi
classici e moderni, tra richiami del passato e autentica modernità. Sembra
quasi di vederlo, di vedere la sua devozione verso la fatidica musa-poesia (?)
quando egli scrive: Io ti ho onorato ogni
giorno/ il capo chino, le spalle basse del guardiano/ alla vestale/ciascun
grappolo di bacche/ho cantato, vivifico e viola, nascosto/in un terreno incolto.
I termini utilizzati oscillano tra un connubio di classicismo e modernità segno
che, la poesia, quella che intende probabilmente l’Atèrre è una sola,
indiscutibile ed indissolubile: essa parla di nodi di segreti che vanno
sciolti, forse fidarsi degli “orsi schivi” e darli in pasto a quest’ultimi: bisogna sciogliere il nodo di carta/dell’ultimo
segreto/darlo in pasto/agli orsi schivi/ alle cince affamate, per poi
proseguire al tempo andato, quel tempo che si gusta e forse si valuta soltanto
all’imbrunire e che si fa testimone tramite odori ed immagini che l’autore, con
la sua poesia, rende alla perfezione: A
sera - /il tempo nostro sfatto, andato/ Sarò l’odore delle sedie, il sole
caduto sul terrazzo, il legno chiaro/del tavolo da pranzo. Ancora continua
il susseguirsi dei fotogrammi-poesia quando il poeta parla di una “nuova
primavera” di un seme che è lì per esserci, per esistere nel grembo di una
fredda sera: Nel grembo della sera,
ancora freddo, c’è il seme di una nuova primavera. Dunque c’è attesa e l’attesa
si rende protagonista anche in altri versi dell’Atèrre, come una presenza
voluta e silenziosa e che poco più avanti, di fatti, troveremo: Aspetto, nel silenzio, il dono incerto/del
tuo portone aperto solo a mezzo/per breve fuga o cauto rincasare; ancora,
nella sezione Il nome che ti ho dato:
Credevo di sentirlo, il passo svelto/ tuo
sulle lastre di pietra per strada/ tra l’erba e il ghiaccio. Si era fatta sera.
Ma ecco che all’attesa, forse umana (?), giunge la risposta dalla dimensione
naturale che è ben presente: La pioggia
aveva camminato, invece,/al posto tuo, fino all’uscio di casa./ La tua voce e
la tua febbre, sui gradini. Interessante è anche la presenza- tema della
luce che chiarisce ed è portatrice di verità: il sole, con i suoi raggi, di cui
l’autore fa scoperta: E sa venire all’umido
del muro/il sole che era nascosto in giardino./ Niente di quello che era tuo è
rimasto/con il mattino, e quante cose ho visto. La raccolta di François Nèdel
Atèrre è dunque una silloge dai temi plurimi di cui, in questa recensione, ne
sono stati presi solo alcuni, un lavoro a mio parere organico che necessita più
di una lettura, approfondita e ripetuta proprio perché ad ogni pagina la luce,
di cui parla lo stesso Atèrre, ci farà scoprire nuove sfumature di significato.
Recensione
di Mariano Ciarletta
Credevo di sentirlo, il passo svelto
tuo sulle lastre di pietra per strada
tra l'erba e il ghiaccio. Si era fatta sera.
La pioggia aveva camminato, invece,
al posto tuo, fino all'uscio di casa.
La voce e la tua febbre, sui gradini.
François Nèdel
Atèrre, Limite del Vero, La Vita Felice, Milano 2019, p.25.
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